Zambelli. Per chi vuole leggere qualcosa che non si trova facilmente

edoardo zambelli

Storie di due donne e di uno specchio, di Edoardo Zambelli ( ed. Laurana) l’ho letto due volte.
Lessi anche il suo primo libro L’antagonista, e mi piacque molto. Anche questo libro mi è piaciuto molto, ma un po’ meno.
Zambelli, secondo me scrive libri di filosofia: questo secondo di più del primo.
Se nel primo c’era una storia e il lettore e la lettrice alle prime armi avrebbe potuto pensare di trovarsi, almeno fino a un certo punto, di fronte a un romanzo classico di quelli appunto con la storia, in questo l’illusione non fa in tempo a formarsi.
Questo l’incipit “ E’ una casa piccola, eppure è infinita. Non c’è luce. Intravedo sagome mobili, ma potrebbero essere persone. “ e questo, – è detto più avanti-, è l’inizio di un sogno. Poche pagine dopo, poi, accanto a episodi di normale vita quotidiana accadono cose che sono chiaramente estra quotidiano ed extra sensoriale.
Non so se questo libro sia stato scritto prima dell’altro ( Edoardo?) ma a me sembra più immaturo. Ci sono i temi del primo ma l’autore non è riuscito a lavorare talmente bene da riuscire a nasconderli davvero nelle pieghe di una storia quotidiana che era la grande forza del primo libro. Leggere il mistero nel giorno per giorno, intuire l’orrore dietro gesti normali, – quelli che tutti noi compiamo – dietro personaggi con una faccia perfettamente plausibile e l’altra che ti sprofonda all’inferno: questo fa davvero paura.
La Storia di due donne e di uno specchio a me sembra troppo scoperto.
Di cosa parla il romanzo: del mistero della vita, della vita come mistero. Questa è la mia lettura, la mia opinione.
Lo fa col suo linguaggio bellissimo, semplice ed elegante, utilizzando una struttura agile, la divisione del libro in due parti ciascuna dedicata ad una protagonista.
Ma, sono davvero due le protagoniste oppure sono tre? La madre della seconda parte è una Alessandra diversa da quella a cui è dedicata la prima sezione del libro?
Strani personaggi con fiori appuntati sul petto, gatti giapponesi, il bagno – e la tavoletta del water-, le piastrelle, e sopratutto una casa, con un video – che suggerisce una pista ma è troppo poco. Questi sono alcuni degli elementi che producono l’atmosfera misteriosa del libro, direi quasi angosciante. Però, mi permetto di insistere: forse sono troppi. Forse troppo mistero e troppo poca storia “uno più uno due”, che tra di noi avremmo intuito subito essere posticcia ma avrebbe retto la finzione.
Non so proprio come spiegarmi. Accidenti. Questo romanzo mi svela troppo presto IL mistero che avrei voluto rimanesse tale.

Sul ddl Pillon

bei zauberei

Comincia ora la discussione del ddl Pillon, un disegno di legge teso a riformulare le norme della separazione tra coniugi in particolare in presenza di figli. Il disegno di legge prevede alcuni cambiamenti salienti che qui vorrei sintetizzare

– obbligo della mediazione familiare, in presenza degli avvocati di parte per avviare la separazione
– abolizione dell’assegno di mantenimento, con divisione delle spese fatte in base al riscontro delle prove di pagamento
– divisione rigorosa a metà del tempo passato con i figli.
– Un indennizzo per il genitore che lascia all’altro la casa di proprietà

E nel dettaglio si riscontra:
– cambiamento dell’accordo solo previo accordo della coppia
– nessuna osservazione aggiuntiva o casistica particolare quando i figli in questione dovessero essere molto piccoli, per esempio sotto i tre anni
– nessuna rilevanza rispetto i desideri espressi dai minori
– nessuna possibilità di ricorrere al tribunale di fronte all’inadempienza di…

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Sconosciute alla stazione

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Quando incontri la povertà la riconosci.

E’ una donna più giovane di te con radi capelli sporchi di tre colori, legati in una coda di cavallo, vestita di tessuti sintetici fino alle scarpe da ginnastica, sporche e sformate. Due borse sulle spalle e una busta trasparente in mano con tre birre dentro.

Parla con altre due donne, una bianca e una nera. La nera è alta, un bel portamento, sembra un’insegnante o un’infermiera mentre la donna con le birre sembra quello che probabilmente è: una donna delle pulizie in qualche grossa ditta, una che pulisce uffici o mense e viene inviata ogni giorno in un posto diverso ad orari impossibili.

La povertà quando la incontri parla un italiano poco comprensibile, smozzicato, cadenzato di smorfie di disgusto. Tutta la rabbia, il rancore e la fatica di vivere nelle smorfie della bocca.

E’ una faccia disgustata, labbra tirate, un corpo che semplicemente resiste, con spalle spesse e una grossa pancia fasciata di blu. Sono occhiaie non mascherate.

Il mio pensiero è spontaneo: questa ha votato Salvini. La sua amica è nera ma lei ha votato Lega, probabilmente. Se ha votato. Di cosa potrei parlare con questa donna? Potrei provare a spiegarle qualche teoria o idea economica socialista contrapposta al pensiero dominante, finto liberista? Parlarle dei disastri del capitalismo? Non penso.

Se avessi il modo di fermarla e chiederle magari il nome potremmo parlare di lei (e anche di me), delle sue condizioni materiali di esistenza e di lavoro (e delle mie secondo un fondamentale principio di reciprocità), delle sue angosce, se ha figli o nipoti; vorrei sapere dove abita e come sono i suoi vicini. Se è sposata o separata oppure senza uomini completamente; se ha genitori anziani da accudire dopo o prima del lavoro. Di cosa ha paura e cosa la fa felice.

Con lei l’incontro dovrebbe essere prima umano, dovremmo insomma cercare di riconoscere la stessa umanità che ci fa essere, tanta è la differenza in tutti gli altri campi. Differenza non tanto di ceto – i miei genitori vengono da quella classe sociale lì, la conosco bene la fatica di quelle donne – e neanche di stipendio – guadagno certo molto più di lei ma non prendo neppure il doppio del suo stipendio; la differenza sostanziale sta nella considerazione di me e negli strumenti di comprensione del mondo che possiedo.

Lei sembra una naufraga, che si aggrappa al primo pezzo di legno che passa.

Tutto questo e molto altro ancora dovrebbe essere la nostra conversazione che dovrebbe durare molti giorni, settimane, con incontri in bei posti oppure alla sfuggita, così, sul treno.

Amici e amiche di sinistra, siete – siamo – disponibili a mettervi in gioco così tanto? Fare politica su facebook è più facile ma non tutti hanno un pc o uno smartphone. Sembra impossibile ma è così e niente marca la differenza tra lei e me come la possibilità di accesso all’informatica, al web, la disponibilità di attrezzatura tecnologica.

Lei ad esempio aveva un vecchio Nokia nella mano destra, a cui strusciava nervosamente il display come fosse un touch screen forse cercando di sembrare normale, come tutti il resto dei passeggeri frettolosi pieni di pc e smarphone attaccati alle orecchie alla stazione, oggi.

Medea: un mito, molte interpretazioni. La storia.

Medea Maria Callas

La vicenda di Medea e Giasone viene da molti letta come una metafora dell’incontro/scontro tra due mondi: un mondo arcaico primitivo, per ciò stesso legato alla natura, semplice, e il mondo più razionale, che inizia a poggiarsi su leggi condivise e per questo predispone lo sviluppo della doppiezza e del sotterfugio secondo la nota massima: fatta la legge trovato l’inganno.

Pasolini, in un’intervista, nel rapporto tra Medea e Giasone vede il contrasto tra proletariato e borghesia. Christa Wolf dà una lettura femminista, che a me piace molto: l’arrivo di Medea a Corinto rappresenta il momento del passaggio dalla cultura matriarcale a quella patriarcale, con l’elisione del ruolo della donna dal consesso sociale e la sua segregazione.

Mi piacciono queste interpretazioni mi sembrano convincenti come spiegazioni della natura della nostra civiltà. Ma.

Medea è anche una storia, non solo un mito.

La storia di una donna che arriva da un luogo molto lontano, barbaro, lei stessa maga; da est, non a caso. E prova sentimenti molto potenti, principalmente amore ed odio, proprio perché è una donna primitiva. Emozioni non normali ma a potenza mille.

E’ un personaggio inquietante, non c’è dubbio: uccide il fratello e ne fa a pezzi il corpo, invia una veste avvelenata alla promessa sposa di Giasone e con quella l’ uccide e poi, in ultimo, l’azione per cui è giustamente famigerata: l’uccisione dei figli.

Ecco che, però, sento che devo darle delle attenuanti, o almeno trovare delle spiegazioni altrimenti non capisco niente e mi sembra solo una barbara in preda alla follia che ha un unico scopo: quello di vendicarsi di un tradimento.

Euripide da la possibilità, è nei versi, di capire anche qualcosa di diverso.

L’ ho capito seguendo la lectio magistralis della prof.ssa Eva Cantarella, Medea Migrante. Per chè interessato: https://www.youtube.com/?gl=IT&hl=it.

Ci sono molti temi importanti nell’interpretazione della professoressa Cantarella, sopratutto connessi all’esperienza dell’essere diversa, straniera ma a me interessa principalmente questo che ora cercherò di spiegare.

Quando Medea fugge dalla sua città natale, Iolco, e durante la fuga uccide il fratello addirittura, compie un gesto senza possibilità di redenzione e ritorno. Sa che mai potrà tornare indietro alla casa del padre (come era usanza ad esempio per le donne ripudiate) e si consegna completamente a Giasone. Ora ha solo lui. Ma Giasone, dopo averle fatto due figli maschi, la tradisce e vuole sposare una più giovane e figlia di re – a lui il regno l’aveva fregato lo zio, deve rifarsi, costi quello che costi.

Medea non può accettarlo e non certo a causa di un banale tradimento, non è certo questo il punto. Non può accettarlo perché lei, senza Giasone, bandita da Corinto, non sa più dove andare: non c’è letteralmente un luogo sulla terra che posa accogliere lei e i suoi figli.

Ho letto che le donne che uccidono i figli lo fanno perché sono convinte, erroneamente certo ma fermamente, che non ci sia la possibilità di alcun bene per loro su questa terra e che, quindi, i bambini staranno meglio di là, nell’altra vita.

Credo che Medea abbia fatto un ragionamento simile. La vendetta per il tradimento di un uomo c’entra poco, credo. E’ lo smarrimento profondo di fronte alla domanda che la donna tradita si fa: e ora dove andremo? Chi darà da mangiare ai miei figli?

Poichè a me interessa capire come le donne esercitano il loro potere all’interno della società mi sono chiesta che cosa mi dice questo mito.

Parto da questa considerazione: Medea in patria era figlia del re e sacerdotessa, una privilegiata rispetto all’esercizio del potere. Quando si innamora di Giasone e fugge tagliandosi dietro i ponti è consapevole che da ora in poi il suo potere dipenderà da quell’uomo che la terrà legata finché vorrà. E infatti a un certo punto non vuole più e lascia cadere il filo, rendendo con questo Medea completamente impotente. L’unico potere che le rimane quindi quello sul nudo corpo, si legga Agamben: il suo e dei figli. Lo usa.

 

 

 

Stivali gialli

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Filomena Giannico è arrivata in ospedale per il turno di notte. Ha percorso i corridoi senza togliersi cappello, sciarpa, guanti e giaccone, il freddo ci mette sempre un po’ a passare. E’ l’ultima ad arrivare, gli altri infermieri ed infermiere sono già pronti e l’aspettano nella medicheria per le consegne. La salutano sorridendo ma lei sa che sono solo sorrisi di circostanza. Le dicono che quella notte il medico di turno è il dottore Ferrero: non è una buona notizia.

Il dottor Giuseppe Ferrero beve una tisana ai frutti rossi appoggiato al lavello della cucina, guardando le immagini senza audio della partita di Coppa Italia. Dal passo risoluto riconosce la Nilde prima che entri. E’ venuta a fare il caffè, senza offrirglielo: sa che per lui è ancora presto, lo prenderà più tardi, verso le undici. Uscendo, l’infermiera commenta che quella sembra proprio una serata tranquilla e Giuseppe Ferrero pensa che ora è sicuro che succederà qualcosa, perché la sfortuna ha le sue leggi e non perdona simili imprudenze.

Il suo ospedale è piccolo ma bello, così lo pensa. E lo pensa suo non per caso: a parte i venti anni di servizio, lui può vantare anche un forte impegno come sindacalista negli ultimi dieci e nel partito, più di recente.

Il calcio, comunque, non lo interessa veramente, e quella partita lo ha già annoiato. Sciacqua la tazza nel lavandino e la mette capovolta ad asciugare: lui non è un medico che si approfitta di infermieri e operatori socio sanitari, lava sempre le sue tazze.

Nel corridoio si affaccia alla finestra che dà sulla valle, la neve alta lo rassicura. Dall’ospedale si vede bene il paese e gli altri piccoli centri abitati di sua competenza. Lui è lì a presidiare il forte, nel caso in cui una delle donne in questo momento tranquilla e al caldo in casa propria decidesse di partorire proprio stanotte.

L’immagine veloce di una infermiera si riflette nel vetro buio. E’ quella nuova, la napoletana.

Le infermiere del giro letti sono già partite, hanno iniziato dal numero basso parte sinistra del corridoio; il prossimo inizierà all’opposto. Fanno attenzione anche a queste cose in questo piccolo ospedale, hanno il tempo di farlo. Pensa Mena.

Lei e Valeria, Lavale, sono al nido, dai neonati. Ce ne sono solo tre, maschi, di cui uno in incubatrice. Lavale è l’unica con un po’ di interesse verso di lei, anche se fa domande del cazzo, a volte. Ma va bene anche così, almeno qualcuno le rivolge la parola, ogni tanto, e non per parlare di lavoro.

I bambini dormono ma fra poco sarà l’ora della poppata e loro li porteranno dalle mamme che, se vorranno, potranno tenerli con loro anche tutta la notte. Mena non ha figli e non ha in programma di averne, per ora, come potrebbe, manca la materia prima: un padre.

E’ l’unica meridionale nel reparto. Susa è troppo a nord perché a qualcuno dei suoi compatrioti sudisti possa venire in mente di cercare un posto lì. Veramente troppo a nord. Ci vogliono tredici ore di treno per tornare a Pozzuoli, e lei, infatti ci torna di rado. E va bene così.

Passando dal corridoio vede Beppe Ferrero appoggiato al davanzale della finestra buia, che di giorno diventa un bellissimo quadro naturale con montagne e boschi. E, d’inverno, bianco di neve. Bello davvero, a lei piace guardare la neve, se è dentro una stanza calda.

Il problema col dottore Ferrero è che non si fida di lei. E solo perché è meridionale, è sicura, non ha mai fatto errori gravi, mai messo in pericolo nessuna donna o bambino. Solo, lui, non la vuole vicino. Cerca di non averla in équipe. Tutto qui.

Il silenzio serale del reparto è interrotto da voci: Lavale la cerca, vede Nilde correre. Poi anche Tommy. Vogliono sapere se ha visto Beppe. Sta guardando il panorama, vorrebbe rispondere, ma ecco che lui arriva a passi lunghi, molto velocemente.

E’ arrivata una chiamata dal Soccorso alpino, dice Nilde, sta arrivando l’elicottero con una donna all’ottavo o nono mese. Da dove? Dal Monginevro.

Filomena vede trasalire i colleghi. Lei non si orienta ancora bene con la geografia del luogo, chiede che problema c’è, perché sono sbiancati. Risponde Nilde: Monginevro, Francia. Filomena continua a non capire.

I ragazzi nella sala del Soccorso Alpino stanno finendo la partita a tressette: durata troppo, vinta e persa con neanche un commento. Senza darlo a vedere ognuno controlla l’ora sul cellulare oppure, in modo più evidente, alza gli occhi al grande orologio appeso alla parete. Hanno tutti gli scarponi ai piedi.

Alberto è fuori da un’ora, da poco è iniziato a nevicare. Hanno controllato già due volte che tutto sia pronto sull’elicottero.

Umberto, il medico, lo sente per primo, fa segno a tutti di tacere. La voce di Alberto nella radio spiega che ha trovato qualcuno, svenuto.

In un attimo sono fuori in tre: pilota, guida e medico.

In dieci minuti arrivano all’abete sotto il quale Alberto sta cercando di tenere in piedi un essere umano. Dall’alto di più non vedono. Calano la barella, poi scendono Umberto e Patrizio. Non è uno scherzo mantenersi in equilibrio attaccati al verricello, ma ce la fanno. Non è la loro prima volta. Dopo alcune manovre, agganciano la barella che viene tirata su. Poi, salgono anche i soccorritori, lentamente. Alberto non va con loro, non c’è posto sull’elicottero e comunque senza di lui arriveranno prima all’ospedale.

Il vento soffia dal Monginevro senza incontrare ostacoli, scuotendo le cime degli abeti che lasciano cadere grosse falde di neve sulla coltre bianca che a terra copre ogni cosa. I suoni scivolano nel silenzio della montagna, i tonfi si sentono da lontano. La luna è coperta da grosse nubi, una breve tormenta è appena finita. Il buio è rischiarato solo dal chiarore della neve che riflette quel poco di luna che riesce a bucare le nuvole.

Alberto Dalmasso è salito da Bardonecchia, ciaspole e lampadina sulla fronte. Nel pomeriggio era arrivata una segnalazione e lui è una guida alpina. Aveva preparato la cena insieme a Loretta, in silenzio. Avevano mangiato carne e verdura mentre lei lo guardava sorridente. Dopo cena era passato a salutare i ragazzi del Soccorso Alpino, dicendo: vado. Nessuno gli aveva chiesto niente. Alberto non è sicuro che i ragazzi siano d’accordo ma sa che non lo lascerebbero mai nei guai, né lui né chiunque altro.

Era salito sulla campagnola e arrivato fino dove poteva arrivare, poi si era messo le ciaspole ai piedi.

Essere sulla montagna al buio, nella neve alta e nel silenzio totale è per Alberto un momento di assoluto, la possibilità di uscire da se stesso per perdersi e fondersi in qualcosa di più grande e sacro che lo riempie completamente.

Camminava con fatica mentre cercava orme, rami spezzati, un qualsiasi elemento che interrompesse la levigatezza della superficie naturale e incontaminata della neve e segnalasse la presenza di un elemento fuori posto.

Ecco, sembrava una montagnetta di neve in mezzo a un prato, vicino a un grosso pino. Aveva puntato la lampada: in mezzo al cerchio di luce, qualcosa di colorato. E’ sicuro di avere trovato quello che cercava. E’ una ragazza molto giovane, i fiocchi di neve sulla giacca da vento azzurra che non si chiude sul ventre di otto o nove mesi.

Alberto Dalmasso ha trovato una donna incinta a millenovecento metri di altezza, nera come la pece sulla neve candida, vicino al confine tra Francia e Italia.

E’ nella culla, arrotolato nel lenzuolo dell’ospedale e in una coperta grigio militare. Non hanno niente di meglio, non hanno coltri piumate per quel bambino appena nato nel reparto ostetricia e ginecologia dell’ospedale di Susa. Le mamme, di solito, portano loro tutto il bendidio di corredo che serve. Questa ragazzina nera, invece, aveva solo il suo bambino in pancia.

Mai visto un piccino così piccolo e perfetto, pensa Ferrero. Ma no, sono tutti così, l’unica vera differenza è che questo è nero, anzi blu scuro. Ha dovuto fare un cesareo, la madre non era assolutamente in condizione di partorire naturalmente. La filosofia del suo reparto è di favorire il parto naturale ma, ovvio, quando serve, serve.

Era arrivata sulla barella, con la coperta termica luccicante, il nero della pelle quasi grigio: Ferrero non aveva capito subito se era svenuta o cosa. Aveva notato però i piedi nudi, gli stracci colorati bagnati buttati sotto la barella, insieme a degli assurdi stivali di gomma gialli.

Con lei era entrato il gruppo del Soccorso Alpino, e i carabinieri. Un sacco di gente che aveva occupato il corridoio prima di essere fatta sgombrare da Nilde in sala di attesa.

Erano arrivati tutti, compresa la napoletana che non era rimasta in silenzio: chi è questa, aveva chiesto. Nessuno aveva risposto, tutti avevano immaginato. Chi è? La conoscete?, aveva continuato.

Dal Monginevro di maschi neri negli ultimi mesi ne erano arrivati tanti. Questa era la prima puerpera.

Filomena non aveva capito che cosa stava accadendo per un bel pezzo. Non era certo la prima africana che partoriva lì, da loro. Poi, aveva iniziato ad intuire. Da sola. Nessuno si era curato di spiegarle niente.

Erano tutti intorno, i suoi colleghi infermieri, ma nessuno che si desse da fare, ognuno guardava il corpo di quella ragazza che giaceva immobile come se ne avesse paura o pietà. Senza osare toccarlo.

Così aveva preso lei in mano la situazione, iniziando a spingere la barella fino a quando anche Tommaso aveva appoggiato prima una, poi entrambe le mani, e l’aveva aiutata a manovrare nei corridoi e fino alla sala parto.

Il trasbordo sul lettino operatorio era stato facile, tanto era leggera quella ragazzina. Mena lavorava, muoveva le mani in coordinamento con la testa, come sempre, come era naturale nel suo lavoro. Le infermiere fanno, agiscono mentre pensano. A volte prima.

Questa ragazzina ha avuto un coraggio da leone, altro che. Ha deciso di conquistare un posto per suo figlio nel Primo mondo, in ultima fila, anzi, nel loggione, lassù dove non si vede niente e i cantanti si intuiscono solo piccole macchie in movimento. Questa ragazzina doveva avere deciso però che era sempre meglio portare la propria pancia a nascere in un loggione europeo che lasciarla a morire in Africa.

Ferrero aveva deciso di fare il cesareo. Tommaso aveva detto a Filomena che andava lui a chiamare l’anestesista e il ferrista di turno e l’aveva lasciata in sala parto con la ragazza. La flebo era pronta, quando Filomena inserì l’ago nella vena la ragazza neppure si mosse.

Beppe era pronto. Era entrato in sala parto e aveva controllato i parametri vitali che erano molto bassi, quella ragazzina molto probabilmente non sarebbe sopravvissuta ma Beppe voleva che il suo bambino nascesse e sano.

La napoletana lo aveva guardato. A lui erano sembrati occhi di sfida ma forse era solo la stanchezza di quell’ora di notte profonda. Dopo un attimo gli aveva detto che voleva partecipare. A cosa? Aveva chiesto. Poi, sì, ho capito. Vada pure a lavarsi, aveva sussurrato. Non sarebbe successo niente prima di un quarto d’ora, forse più, dovevano arrivare i reperibili. Beppe aveva deciso di aspettarli lì, in sala.

La ragazza ora dormiva, sembrava serena. Ci sono alcuni che, nonostante le sostanze che vengono loro iniettate in vena, hanno la faccia stravolta, muovono le pupulle, si agitano. Quella ragazza invece è tranquilla, forse è consapevole di aver portato a termine la sua missione. Beppe sa che i suoi pensieri altro non sono che proiezioni del suo senso di colpa o, al massimo, dei suoi desideri. Ma non gli importa. Arriva la napoletana, Filomena si chiama. Dietro di lei i reperibili. Si comincia.

Intellettuali e rappresentanza

“L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed esser appassionato ( non solo del sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere) cioè che l’intellettuale possa essere tale ( e non un puro pedante) se distinto e staccato dal popolo-nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo (…) non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo.nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporto di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio ( così detto centralismo organico). Se il rapporto tra intellettuali e popolo-nazione, tra dirigenti e diretti – tra governanti e governati – è dato da un’adesione organica in cui i sentimento passione diventa comprensione e quindi sapere ( non meccanicamente ma in modo vivente), solo allora il rapporto è di rappresentanza. (…)”Antonio Gramsci, Il materialismo storico.

Scritture

Sto scrivendo un romanzo nel quale uno dei protagonisti è un luogo, una paesino, ormai distrutto che rimane come radice identitaria dei suoi abitanti. Molto importante per il mio testo è un bellissimo libro che si chiama Il senso dei luoghi, di Vito Teti, professore all’Università della Calabria; ne ho già parlato qua.

Ora vorrei riportare un brano che rappresenta il punto di partenza del mio testo.

“Quando parlo di sentimento dei luoghi, pur non escludendo la magia che essi possono esercitare, non intendo costituire una metafisica dei luoghi, collocarli in una sorta di immobilità e astoricità. I luoghi hanno una loro posizione geografica, spaziale, ma sono sempre, ovunque, una costruzione antropologica. Hanno sempre una loro storia, anche quando non facilmente decifrabile; sono il risultato dei rapporti con le persone”.
Il luoghi sono il risultato dei rapporti tra le persone, hanno una dimensione fisica, materica, ma anche storica e sociale. Ne deriva che le persone, gli uomini e le donne, hanno la possibilità di cambiarli e di essere cambiati da essi. I luoghi hanno una memoria contenuta sia nella loro dimensione materiale che in quella immateriale. Il ricordo, quindi, la memoria degli abitanti e dei discendenti degli abitanti ( profondamente diverse l’una dall’altra) ha un ruolo fondamentale nella costruzione di un determinato luogo. Sopratutto se quel luogo è andato distrutto, non esiste più e tutto ciò che si può fare per riportarlo in vita è affidarsi alla memoria degli uomini e delle donne che in quello hanno e hanno avuto radici.